La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 10335 di data 18 aprile 2023, è tornata a pronunciarsi in materia di prova del danno da perdita parentale e della non necessarietà, a questo fine, del rapporto di convivenza.
La medesima è stata chiamata a decidere un ricorso proposto avverso una sentenza della Corte d’appello di Roma con cui veniva affermato che “in considerazione della grande lontananza e della mancanza di convivenza tra la vittima e gli attori”, fratelli del de cuius, “non possono presumersi rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà tra i fratelli e il familiare defunto” e di conseguenza rigettata la domanda risarcitoria dagli stessi formulata.
Con l’impugnazione viene contestata la violazione dell’art. 2727 c.c., per esser stato dato rilievo alla lontananza come causa escludente il danno da sofferenza per la morte del fratello.
La Suprema Corte riconosce la fondatezza del ricorso rilevando che la corte capitolina ha commesso un errore laddove “ha escluso automaticamente la rilevanza del nesso parentale fra fratelli ai fini del diritto al risarcimento del danno da sofferenza in ragione della sola lontananza spaziale dal de cuius”.
Questa – confermando il proprio orientamento ormai consolidato – evidenzia, infatti, che “la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull’esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all’interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull’assenza di legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di parentela.”