La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta in tema di licenziamento per superamento del comporto ex art. 2110, c. 2, cod. civ., norma che stabilisce che il lavoratore in malattia o in infortunio ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo (c.d. di “comporto”) – la cui determinazione è lasciata ad altre fonti, individuate nelle leggi speciali, nella contrattazione collettiva di settore, negli usi e nell’equità -, durante il quale il datore di lavoro può recedere dal rapporto lavorativo solo se sussista una giusta causa (motivo disciplinare) ex art. 2119 cod. civ..
Con l’ordinanza n. 26997 dello scorso 21 settembre, la Suprema Corte ha ritenuto corretta l’impugnata sentenza della Corte territoriale che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice – cui, in precedenza, il datore di lavoro aveva negato la fruizione delle ferie maturate – a causa del superamento del periodo di comporto.
La S.C. ha richiamato il principio espresso dall’ormai prevalente giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 19062/2020), “secondo cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo un’incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive”.
Il datore di lavoro, a fronte della richiesta del dipendente di conversione dell’assenza per malattia in ferie, maturate e non fruite, è tenuto a bilanciare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109 cod. civ.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie annuali con l’interesse del lavoratore ad evitare la perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto, ben potendo, dunque, teoricamente rigettare l’istanza, laddove sussistano esigenze “concrete ed effettive” dell’impresa, tali da giustificare il sacrificio dell’interesse del lavoratore (esigenze che il datore di lavoro deve dimostrare in giudizio, in caso d’impugnazione del licenziamento), non potendo le stesse essere meri riferimenti generici a ragioni organizzative aziendali.
La S.C., con la citata ordinanza, ha osservato che “un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tale fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita”.
Numerosi contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono, infatti, che il prestatore di lavoro in procinto d’esaurire il comporto possa evitare il licenziamento, fruendo di un periodo d’aspettativa per malattia non retribuita; periodo, anch’esso, solitamente da richiedersi prima della scadenza dello stesso comporto, non sussistendo alcun obbligo, da parte del datore di lavoro, di preavvertire il lavoratore dell’imminente scadenza del comporto e della possibilità di fruizione dell’aspettativa (o di ferie non godute).
Tornando all’ordinanza in commento, la S.C., nel rigettare il ricorso dell’azienda, ha ritenuto che bene aveva fatto la Corte d’appello a confermare la sentenza di primo grado, che aveva annullato l’impugnato licenziamento, reputando, nella fattispecie, “sostanzialmente immotivato il diniego datoriale delle ferie maturate e non godute che la lavoratrice aveva chiesto prima della scadenza del periodo di comporto, indipendentemente o meno di ragioni organizzative o produttive”.